Sono in molti a ritenere che la generazione che sta per concludersi, oramai ci siamo, sia stata la migliore della storia dei videogiochi. Non sono assolutamente d’accordo, anzi, a mio parere è stata una delle peggiori. E non perchè è venuto meno il sense of wonder, la sorpresa inaspettata, il pionierismo dei tempi andati e l’originalità, a queste cose oramai ho rinunciato da un pezzo. Certo abbiamo avuto ottimi giochi, come è sempre successo fin da quando questi erano realizzati con grumi di pixel e la cosa più bella a vedersi era la copertina della confezione, ma in tutta franchezza mi sembra che negli ultimi anni il baricentro del mondo dei videogiochi si sia spostato verso percorsi impervi, dimenticandosi della sua essenza. In particolare alcuni titoli, da moltissimi considerati veri e propri capolavori, mi hanno deluso parecchio, sia mentre li giocavo, con enormi aspettative (disattese), sia in prospettiva, assurgendo a pietre miliari, titolo che personalmente non gli avrei mai affibbiato. In estrema sintesi: troppo spesso la narrazione, l’ammiccamento al cinema, la tangenza con i manifesti politici e sociali hanno messo in secondo il gameplay. Non sono un luddista, tutt’altro, ma mi sembra che le maggiori attenzioni dei game designer oggi siano concentrate sul contorno e non sul piatto principale. Un videogioco può essere tranquillamente un film interattivo e/o un manifesto politico, ma se è una palla da giocare, beh, a mio parere ha fallito il suo obiettivo.
Avviso ai naviganti: per sopravvalutati intendo giochi che a mio parere (e ricordo sempre la massima di Clint Eastwood, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue) hanno ricevuto un plauso di pubblico e critica nettamente superiore a quello che è stato il mio percepito ludico mentre li giocavo. Ovviamente titoli di fronte a quali nessuno si è genuflesso per quanto validi, non sono presenti.
The Witcher 3: Devo ammettere che la furbizia sfacciata e paracula dei Cd Project è incredibile. Non solo sono riusciti a diventare la software house numero uno in Europa facendo uscire tre giochi in croce e tutti appartenenti allo stesso franchise (alla faccia del “fate sempre le stesse IP“, mantra che viene ripetuto costantemente a qualsiasi altra compagnia, una in particolare…) ma le loro produzioni hanno esattamente gli stessi difetti che vengono imputati a produzioni di altre case, senza che però questi vengano minimamente toccati da qualsivoglia polemica. La versione PS4 di The Witcher 3 non sono riuscito nemmeno a finirla, tanto era buggata, fallata e bucata. Peggio di Skyrim o Fallout, tanto per dire. Del combat system non vale nemmeno la pena di parlare: colpisci e capriola, colpisci e capriola, roba che persino un Assassin’s Creed qualsiasi lo irride senza pietà. Sì, alcuni missioni sono ben scritte, l’universo è credibile e i personaggi sono diventati iconici ma onestamente a proclamarlo best game evahhhh come fanno in troppi, mah, proprio non ci riesco.
Death Stranding: Ritengo Hideo Kojima uno dei game designer più sopravvalutati dell’industria videoludica. Ha fatto molte e ottime cose, almeno fino a qualche anno fa, me gli ultimi exploit li ho trovati eccessivamente autoreferenziali. Death Stranding è una dichiarazione di impotenza: “Volevo fare il regista, non ci sono riuscito, provo a fare un film e spacciarlo per videogioco”. Infatti le cose migliori sono le performance degli attori. Il gioco, quello vero, non è pervenuto. La pigrizia ludica dimostrata, anzi, ostentata da Death Stranding è abbastanza deprimente. Davvero è il caso di premiare un gioco esclusivamente per “la direzione artistica” o “la visione autoriale”, quando il suo cuore pulsante è pressochè inesistente? Eppure unire narrazione e gameplay non è difficile. Torniamo al solito discorso: come successo per i Cd Project, oramai Kojima, “genio visionario”, ha ottenuto il passaporto di impunità, per cui di ogni sua produzione si deve parlare bene “a prescindere”. La paura, in caso contrario, è di passare per non esperti, di non comprendere il medium che si sta evolvendo etc.etc.. Il successo di critica (molto meno di pubblico, visto che commercialmente è stato un flop) di Death Stranding, è figlio dell’immotivato senso di inferiorità che spinge il videogiocatore alla spasmodica ricerca di qualcosa che “giustifichi” il videogioco come se il gameplay da solo non bastasse (più).
Red Dead Redemption 2: altro gigante dai piedi d’argilla. Tutto chiacchiere e distintivo, come direbbe un iracondo De Niro/Capone a un sorridente Costner/Elliot Ness. Io dico: costruisci un mondo magnifico, pulsante e credibile, perchè non mi ci fai muovere, giocare e divertire come voglio? Perchè non ti accorgi che il gameplay è inesistente nella peggiore delle ipotesi e una palla terrificante nella migliore? Tra l’altro, il realistico realismo di Red Dead Redemption 2 funziona solo quando fa gli comodo, non appena c’è da trasformarsi in videogioco (irrealistico), ecco che lo switch è immediato. Aggiungiamo una verbosità insostenibile (che probabilmente stonerebbe in un film, figuriamoci qui), una lentezza disarmante in ogni comparto e un gameplay già debole e che viene ulteriormente annacquato da continue interruzioni e la noia è servita.
The Last Guardian: Ueda è un Kojima un po’ sfigato. Io mi immagino i dirigenti Sony che scuotono la testa sconsolati dopo l’ennesima telefonata o mail per sollecitare la chiusura di un progetto che si trascina da anni e lui che traccheggia e rimanda la deadline sine die. The Last Guardian, la cui lavorazione è stata a dir poco laboriosa, si riassume in una lunga serie di puzzle ambientali resi artificiosamente complicati solo dall’atteggiamento irritante di Trico, infame bestia ritardata, disgustoso ibrido tra una gallina e un rapace deforme, che non recepisce nemmeno gli ordini più elementari. Alcune sezioni, come quella sulle catene, sono da incarcerazione immediata ad Azkaban. Altro che favola moderna, è un legno terrificante.
Final Fantasy 7 – Remake: forse il gioco da me più atteso in assoluto di questa gen, ma che non mi ha soddisfatto pienamente. Tecnicamente è eccelso, ma per proporre la lucrativa struttura “ad episodi” (mai vista nella storia degli Rpg, vedremo come la gestiranno), Square ha allungato a dismisura molti degli eventi che, nell’originale, duravano giusto una manciata di minuti. Alcune sequenze (Cloud e Aerith appena usciti dalla chiesa, tutto il segmento ambientato a Mercato Murato, quello relativo alla Piattaforma 7 e ne conto almeno un’altra mezza dozzina) sono infarcite da filler, dialoghi, microeventi che se da un lato permettono un certo approfondimento psicologico dei personaggi (peraltro spesso superfluo, visto che trattasi di storia e vicende già “vissute”, almeno per i fan di vecchia data), dall’altra rappresentano uno dei casi di ridondanza narrativa più clamorosi degli ultimi anni. Il combat system può piacere o meno, quello che però è inaccettabile è che nel 2020 ci siano ancora le solite quattro casse da aprire, premi il tasto X per salire o scendere la scala (che ovviamente si attiva solo se sei esattamente posizionato là dove i programmatori hanno deciso che tu debba essere), i personaggi che si fermano di fronte ad un oggetto che non gli arriva nemmeno al ginocchio come se fosse un ostacolo invalicabile, nessuna strada alternativa per raggiungere da A il punto B e la farsa delle quest alternative (poche e poco interessanti, a ben vedere) che scompaiono per sempre se non le fai prima di un dato momento. In più dura pure poco, visto che bastano 30 ore per completare tutto (io ho chiuso a 29 e una manciata di minuti, senza nemmeno correre troppo).
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